Come si deradicalizza in Arabia Saudita e nello Sri Lanka: idee per l’Occidente

Pubblicato: 21/02/2022
Come si deradicalizza in Arabia Saudita e nello Sri Lanka: idee per l’Occidente

“I programmi di deradicalizzazione possono essere diversi nei singoli Stati a seconda della cultura e della religione praticati con un approccio laico. È interessante il progetto di deradicalizzazione dell’Arabia Saudita, riconosciuto dall’ONU nel 2016  come uno dei più efficaci al mondo”.

In questo modo Francesco Conti, ricercatore e analista, ha introdotto il suo seminario al Master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri. Conti ha proseguito ricordando che il Mohammed Bin Naif Center fonda il programma di deradicalizzazione su tre pilastri: il counseling (per il contrasto alle visioni ideologiche e una corretta comprensione del significato teologico del termine Jihad); la riabilitazione (per fornire supporto psicologico, psichiatrico e medico); la cura (per ribadire l’importanza della famiglia, fornendo gli strumenti del reinserimento sociale, economico e lavorativo).

A tal proposito ha evidenziato che la famiglia ha una forte componente tribale, che considera disonorevole che un proprio membro faccia parte di gruppi terroristici come Al Qaeda e Isis.

Un’altra accortezza è quella di adottare un linguaggio neutro nell’approccio ai processi di deradicalizzazione.

Conti ha fatto notare che la radicalizzazione degli attivisti fa leva sulla loro scarsa cultura ed educazione religiosa, oltre che sulle frustrazioni sessuali e sentimentali. Infatti, circa il 70% di chi abbraccia la jihad armata sono celibi.

Inoltre, si è constatato che la maggior parte dei terroristi radicalizzati dell’Arabia Sauditi provengono dalla regione di Al-Qassim, una delle più povere del paese.

Ha quindi evidenziato che il Mobaahith al’Amma, ritenuto come l’intelligence, il controspionaggio e l’antiterrorismo saudita, non si limita alla sorveglianza dei sospetti terroristi ma anche al monitoraggio, visibile e invisibile, dei beneficiari che stanno seguendo il percorso di deradicalizzazione perché siano consapevoli di dover continuare a rispettare la legge.  

Altro programma di deradicalizzazione internazionale considerato di successo secondo Conti è quello dello Sri Lanka, “dove per 25 anni si è combattuta una guerra che ha causato un numero imprecisato di morti. Le Tigri Talim, unica organizzazione in grado di uccidere due diversi capi di Stato, Ghandi in India e Ranasinghe Premadasa nello Sri Lanka, a differenza di Al Qaeda o dell'Isis, non era un gruppo fondamentalista religioso, ma un gruppo nazionalista e separatista interessato a conquistare parti di territorio. Reclutava i figli dei terroristi stessi, bambini che non erano mai andati a scuola e mai avevano avuto un lavoro. Il programma di deradicalizzazione è stato organizzato perciò in tutto il paese in 16 centri, prevedendo sia un supporto psicologico che la formazione professionale differenziata per uomini e donne. “Il suo punto di forza - ha proseguito - è rappresentato dalla circostanza che è stato affidato alle forze armate. In questo modo è stato modificato l’atteggiamento piscologico e la conflittualità dei beneficiari, che hanno potuto apprezzare persone che prima consideravano acerrime nemiche”.

Conti ha evidenziato differenze e similitudini tra i programmi dell’Arabia Saudita e dello Sri-Lanka. Le differenze riguardano il gran numero di donne e bambini da deradicalizzare nello Sri-lanka, mentre in Arabia Saudita sono molti di meno; il differente peso della religione nei due programmi; il differente status legale dei beneficiari che in Arabia Saudita sono ex-terroristi che hanno già scontato una pena, mentre nello Sri-Lanka sono ex prigionieri di guerra amnistiati.

Le similitudini riguardano le terminologie neutre usate nei processi di deradicalizzazione, l’approfondimento orientato sul singolo individuo per il suo sviluppo cognitivo, l’attenzione sulle competenze professionali necessarie alla loro reinserimento.

Conti ha poi citato due importanti risoluzioni dell’Onu, per il contrasto al terrorismo.

La  n° 2178 del 2014 che definisce la figura del “foreign fighter” e chiede agli Stati di prevenire e reprimere condotte  di reclutamento, organizzazione,  trasporto di individui che si spostano nello stato islamico con finalità terroristica. La risoluzione è importante perché è stata recepita con effetto a cascata dalle varie nazioni.

L’altra risoluzione significativa è la n°2396 del 2017, con la quali gli Stati sono invitati a mettere in atto programmi e strategie complessivi di riabilitazione dei Foreign fighters con un approccio “tailor”, cioè personalizzato sulle caratteristiche individuali del singolo terrorista. La risoluzione fa riferimento ai servizi sanitari, sociali e dell’istruzione. Contemporaneamente non viene mai riportata la parola “deradicalizzazione”, poichè non è stato raggiunto un consenso internazionale sul suo significato.

Inoltre il Terrorism Prevention Branch, organo della UNODC (United Nations Office on Drug and Crime) fornisce supporto tecnico multidisciplinare agli Stati membri per il rimpatrio dei Foreign fighters dalle zone di conflitto in territorio siro-iracheno, includendo percorsi di screening, prosecution, rehabilitation e reintegration.

“Il processo di rimpatrio - afferma Conti - è importante, specie nella fase di screening in cui si valuta la reale pericolosità sociale del soggetto. Queste persone, infatti, anche se si trovano in centri di detenzione, possono radicalizzare altre persone in prigione, corrompere guardie, scappare e agire  pericolosamente, come è successo la settimana scorsa quando una prigione siriana gestita dalle forze dei miliziani curdi, alleati degli Stati Uniti, è stata attaccata da miliziani islamici, e i terroristi legati all’ISIS sono riusciti a fuggire causando centinaia di morti”. 

Il diritto internazionale, ha proseguito Conti, considera diversamente minori, donne e adulti. I minori sono trattati sempre come vittime del terrorismo e non vanno in prigione. Le donne hanno trattamenti diversi a seconda che abbiamo avuto un ruolo passivo, seguendo semplicemente il marito presso lo Stato islamico, o attivo. “Un caso  analogo è quello di Alice Brignoli - ricorda Conti - andata al seguito del marito Foreign Fighter nello Stato islamico portandosi dietro tre figli minori, con un quarto nato in Siria. Rimpatriata nel 2019, poco più di un mese fa è stata condannata in appello a quattro anni di reclusione, mentre, invece, i figli sono adesso in un centro protetto". 

“Per i maschi adulti - ha evidenziato - il diritto internazionale distingue tra chi ha compiuto la Hijra, la migrazione, prima o dopo l'istituzione dello Stato islamico, considerando trattamenti più gravi per chi l’ha compiuta dopo, in quanto si presume che  abbiano risposto ad una chiamata terroristica”. 

Conti ha concluso citando l’importanza della Social Media Intelligence (SOCMINT) che investiga sulla propaganda dei terroristi sul web. In Italia le forze di polizia collaborano attivamente sui social media con la task force dell’Europol - Terrorism Internet refer days -, a dimostrazione di quanto l’azione antiterroristica abbia sempre bisogno di un coordinamento internazionale.

 
Dr.ssa Liuva CAPEZZANI


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