Dalle giubbe rosse all’industria alimentare: un insetto chiamato E120

Pubblicato: 23/01/2023
Dalle giubbe rosse all’industria alimentare: un insetto chiamato E120

Il mondo dell’informazione si è movimentato per l’autorizzazione da parte dell’Unione Europea sul consumo alimentare di insetti. Lo sdegno della popolazione è alto e a ragion veduta, ma forse non tutti sanno che la categoria insetti è già stata inserita in alcuni alimenti già da molto tempo.

Si chiama cocciniglia e la troviamo scritta nelle etichette sotto forma di sigla E120; uno degli additivi  alimentari che colora di rosso aperitivi, make up, dolci, ecc. , anche se, in alcuni prodotti, è stato rimosso per motivi etici. Chimicamente è un sale di alluminio presente nell’acido carminico, di fatto è un prodotto estratto da un insetto dal nome “Cocciniglia”,  e giusto per dare qualche numero,  servono qualcosa come 80mila insetti per fare 1 Kg di prodotto.

Il processo produttivo

Le cocciniglie vengono allevate in piantagioni di cactus (pale dei fichi d’india), in particolare in Spagna. La sostanza necessaria alla produzione del colorante è presente solo nelle femmine, con maggior concentrazione nelle femmine gravide. Gli insetti vengono raccolti con delle spatole metalliche poco prima che depongano le uova, dopodiché li si lascia morire e facendoli seccare al sole.

Successivamente vengono macinate ottenendo così una polvere che verrà  trattata con acqua calda, necessaria per poter estrarre la molecola colorata: l’acido carminico.  Quest’ultimo verrà poi lavorato con  dei sali di alluminio per ottenere un colore più brillante. La lacca che ne risulta viene aggiunta all’etanolo e, una volta sedimentata, si otterrà una polvere solubile in acqua.

Una scelta alternativa poco sensata

Premesso che non c’è nessuna necessità di colorare il cibo, come abbiamo accennato molti prodotti che contenevano il colorante E120,  sono stati sostituiti  con altri  coloranti come l’E122 (azorubina) e l’E124, (chiamato anche Cocciniglia A, cioè artificiale). La differenza? Mentre l’E120 è un prodotto “naturale”, i sostituti sono coloranti azoici ottenuti in laboratorio.

La scelta etica (e comunque poco salutare), è da onorare, ma le alternative sul piano salutare sono molto discutibili: l’E122 è inserito nell’elenco degli allergeni pericolosi e intollerante se assunto insieme ad alcuni farmaci; l’E124 ha mostrato una possibile correlazione con la sindrome da deficit di attenzione e iperattività nell’infanzia.

Pericolo allergie

Purtroppo sono ancora molti i prodotti che contengono il colorante E120: lo troviamo presente in alimenti come hamburger, salumi, caramelle e anche in alcune marche di yogurt.

L’aspetto etico non è l’unico problema di questo colorante. Sembra infatti essere responsabile del verificarsi di casi di allergie come ad esempio  asma in operai addetti alla produzione; inoltre, la sigla di questo colorante, deve essere accompagnata dalla seguente avvertenza: “Si sconsiglia l’assunzione massiccia per i bambini per possibile rischio ADHD”.

Occhio al make up

L’utilizzo del colorante derivato dalla cocciniglia è ancora molto diffuso nell’industria del make up. Lo si può trovare in rossetti, fard e altri prodotti che entrano a diretto contatto della pelle.

La storia non insegna

“Quando Cortés e i suoi conquistadores, nel 1519,  entrarono per la prima volta nella capitale azteca Tenochtitlàn (l’attuale Città del Messico), trovarono una città popolosa e molto ricca. Nella enorme piazza del mercato, una quantità di prodotti mai visti prima, molti dei quali di grande valore, attendeva soltanto di essere trasportata sui mercati europei. Fra questi, balle di cotone finemente intessuto e filati delicati di uno strepitoso “colore rosso carminio”.

Inizia più o meno da questo capoverso del libro di Stefano Mancuso “La Nazione delle Piante”, la conoscenza del rosso carminio estratto da un insetto:  La cocciniglia.

Una storia che parte dagli aztechi che, per produrre questa meravigliosa tonalità di rosso, utilizzavano questo insettino che dimora sulle piante del fico d’India. Un colore incantevole e pregiato, tanto che gli Stati sotto il comando degli aztechi, ne dovevano pagare un tributo annuale all’Imperatore; tributo che poteva consistere anche in un certo numero di sacchi pieni proprio della stessa cocciniglia .

Ed è proprio dai corpi essiccati di questo insetto che si otteneva – e si ottiene ancora-  questa tonalità brillante di rosso, oggi utilizzato non solo per la tessitura, ma anche nell’industria alimentare e cosmetica.

Giubba rossa

La produzione di questa tinta, è rimasta monopolio della Spagna per almeno due secoli, custodendone il segreto gelosamente, e facendone un commercio (per chi poteva permetterselo) molto remunerativo per tutto il continente europeo.

Gli inglesi divennero presto i più fedeli acquirenti di questo colore, scelto per tingere le divise dei soldati (giubbe rosse), trovando il modo di acquistarlo, a caro prezzo, e non solo inteso come denaro, anche durante le numerose guerre contro la Spagna.

Per l’esercito britannico, quella tonalità di rosso, era fondamentale, e non poteva essere sostituita: “ogni altro rosso avrebbe reso le loro giubbe meno rosse, svilendo la gloriosa nobiltà della divisa”.

Fine di un monopolio

Nessun segreto dura a lungo. E così il monopolio spagnolo, sul finire del XVIII secolo, giunse in mano delle spie britanniche: "per ottenere il desiderato carminio erano necessarie le cocciniglie e per avere le cocciniglie erano indispensabili i fichi d’india”.

Già ma dove posizionare i fichi d’india? La scelta ricadde sull’Australia – il clima era perfetto – e così importarono sia le piante che gli insetti. Ma i risultati non furono quelli attesi.

Conoscere le relazioni della natura

Gli insetti morirono subito dopo il loro arrivo in Australia, mentre i fichi d’india, abbandonati al loro destino trovarono un ambiente perfetto per propagarsi al meglio. Giusto per dare un’idea di come il fico d’india aveva trovato il suo ambiente ideale, si stima che, arrivato in Australia nel 1788, nel 1920  aveva “conquistato” oltre 30 milioni di ettari, proseguendo imperterrito verso nuovi territori con una velocità di circa mezzo milione di ettari all’anno.

Questo ha creato però non pochi problemi a fattorie, pascoli e aree agricole che si videro depauperate del loro territorio, impedendo loro ogni attività produttiva. Un problema decisamente da risolvere che spinse le autorità (XIX sec. d.c.) a cercare soluzioni.

Un lepidottero a salvezza della terra

Nel 1926, si trovò una soluzione: un lepidottero argentino noto come Cactobrastis cactorum, parassita di varie specie di Opuntia. Una soluzione azzeccata. Di fatti, questa larva di farfalla, nel giro di una ventina di anni debellò questa invasione di fichi, nutrendosene.

Tutto bene, quindi? In parte. Nonostante l’introduzione della Cactobrastis in Australia sia citata come una operazione di successo, la natura vuole sempre l’ultima parola. Col tempo in Australia si sono evolute popolazioni di fico d’India resistenti al parassita, e questa è una prima complicazione, non grave, che richiederà, tuttavia, negli anni a venire un controllo più attento delle popolazioni di cactus.

Riflessione

Il successo australiano non fu tale in altre nazioni che decisero di adottare lo stesso sistema, le quali ebbero un risultato tutt’altro che positivo.

Cercare di prevedere cosa può accadere intervenendo sulla natura,  è come cercare di anticipare dove andrà a cadere una piuma in una giornata di vento, giusto per citare Darwin.  L’uomo purtroppo ha una scarsa conoscenza  sulle relazioni naturali, e ogni volta che interviene per risolvere un problema, tra l’altro  da lui stesso creato, l’effetto, a breve o a lungo termine,  è spesso più grande del problema medesimo.

Le specie viventi sulla terra, nell’acqua, e nell’aria, sono tutte connesse in relazioni manifeste o nascoste e, intervenire su una specie specifica, o alterandone semplicemente l’ambiente, si possono avere delle conseguenze inaspettate, con alterazioni imprevedibili. Non dimentichiamoci che noi, di questo ambiente, ne siamo parte integrante, non i dominatori.

Elena ALQUATI



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