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Le Tradizioni Natalizie in Puglia
Le tradizioni natalizie della Puglia sono tante e variegate, come tante sono le ricette tipiche di questo periodo. Fare un quadro generale è alquanto arduo perché ogni provincia annovera piatti propri e riti popolari locali. I preparativi per il Natale partono solitamente il giorno dell’Immacolata, ma non è sempre così. A Bari si inizia il giorno di san Nicola con i primi canti suonati nelle chiese, sul Gargano ai primi di dicembre con l’arrivo dei pastori della transumanza dall’Abruzzo e l’immancabile suono della zampogna. A Taranto inizia all’alba del giorno di Santa Cecilia, con il rito della preparazione delle pettole.
I preparativi del Natale cominciano con l’allestimento del presepe che assume un carattere proprio e un’ambientazione ogni anno differente. Ogni famiglia, nel periodo natalizio, dedica molto tempo e maggiore attenzione anche alla cucina e alla preparazione dei tantissimi dolci degni di questo importate evento. Le prove generali si fanno alla “Vigilia” dell’Immacolata, primo appuntamento festaiolo e carico di riti tramandati nel tempo. La cucina è tutto un tripudio di frittelle, baccalà, capitone, seppie ripiene che fanno capolino sulle tavole imbandite.
Pochi giorni dopo, con l’approssimarsi della “novena” (i nove giorni precedenti la festa) di Natale, che rappresenta ancora oggi, come allora, una sorta di periodo nel quale, più che nelle altre festività, i forni casalinghi come quelli degli esercizi commerciali, lavorano a tutto spiano ed i sapori si promanano per le vie del paese: fino ad una cinquantina d’anni fa, all’uscita dalla messa mattutina, celebrata alle 5,30 circa, mentre gli uomini erano già nei campi e gli operai al lavoro, le donne ritornavano celermente a casa per i preparativi culinari.
Oggi non è più così, i tempi sono cambiati anche se, in alcuni paesi, ci si può facilmente imbattere in qualche anziana indaffarata tra teglie di paste varie che si accinge a raggiungere uno dei pochissimi forni a legna ancora funzionanti. Mentre i condimenti e le ricette, sono rimaste inalterate nel tempo, tramandate oralmente da madre in figlia. Si va dall’impasto per confezionare i taralli col pepe e col vino, ai caratteristici calzuncelli o ficazziedde, o gli immancabili sannacchiuddere o purcidduzzi che dir si voglia.
Il tutto da consumarsi rigorosamente nelle giornate di festività.
Il pranzo della vigilia di Natale, riveste ancora oggi, come in passato, un’importanza e un folclore maggiori di quello del giorno festivo vero e proprio. Un noto proverbio barese recita “Chi non fa il digiuno di Natale, o è asino o è cane”, ad indicare come il protagonista indiscusso del cenone della vigilia sia sicuramente il pesce, freschissimo, pescato nelle coste regionali.
Il menu tipico della vigilia non può che iniziare con la frittura: è un tripudio di pettole salate o pittule salentine semplici o con pomodori capperi alla pizzaiola, panzerotti, frittelle “senza anima” (cioè vuote), popizze come vengono chiamate a Bari, accompagnate con la conserva di peperoni o ricotta ascuante (piccante) e sgagliozze (soprattutto nella parte storica di Bari vecchia).
E il rito del calzone di cipolla che ogni famiglia prepara alla maniera propria?: c’è chi lo fa con l’impasto della focaccia, chi invece utilizza l’impasto dei taralli con l’olio e il vino bianco (la pasta frolla pugliese).
Per il ripieno la ricetta tradizionale richiede gli sponsali, cipollotti bianchi di forma allungata, uva passa, olive snocciolate, formaggio, olio e acciughe sotto sale, ma anche qui ci si sbizzarrisce alla grande. L’importante è che dopo la cottura il calzone assuma un colore ben dorato e friabile.
Menzione a parte va fatta per il baccalà, che viene preparato in diverse versioni, anche se quella più gettonata, è fritto: infarinato o passato in una soffice pastella che diventa croccantissima dopo la cottura.
Altra variante del piatto di punta della regione da servire come antipasto, è il baccalà in umido con pomodori, capperi ed olive nere, meglio ancora se accompagnato da bruschette di pane tostato; in alternativa il baccalà con le patate in pignata: terrina a strati di baccalà, profumato all’alloro, rosolato con le patate e passato al forno con una copertura di pecorino in modo da formare una invitante crosticina croccante.
Per i primi, c’è ampia scelta, anche se il piatto pugliese per eccellenza è orecchiette con le cime di rapa. Se la ricetta di per sé è piuttosto semplice e viene spesso riprodotta in tutte la regione, il trucco per prepararla davvero alla pugliese consiste nel cuocere le orecchiette o strascinati (pasta fresca rigorosamente preparata a mano) nella stessa acqua in cui sono state fatte bollire le cime di rapa prima di ripassarle in padella. Una piccola accortezza che permette di insaporire profondamente la pasta con le verdure. Il tutto irrorato da una doratissima spolverata di pane grattugiato tostato in padella con un filo d’olio extra vergine.
Altra scelta? La pasta con i frutti di mare, che può andare dalle classiche linguine al sugo di scampi, agli spaghetti con le cozze, o le vongole con gli immancabili pomodorini, passando per il più tradizionale piatto di spaghetti con il sugo di anguilla o capitone, o persino con il sugo fatto con le seppie ripiene.
Per cena un buon pesce al forno, magari con le olive leccine e pomodorini per poi passare ai dessert.
Per i momenti più dolci e succulenti è bene ricordare che sia alle vigilie che alle feste principali, i dolci che si mangiano, sono quelli che si sono preparati proprio durante il periodo della novena. I dolci natalizi pugliesi non hanno nulla da invidiare per accuratezza, semplicità degli ingredienti, bontà e soprattutto…conservabilità (perché devono durare sino alla befana).
Il primato è riservato alle cartellate o carteddate: gustosi dolci composti da nastri dentellati di sottile sfoglia di pasta ottenuta con farina, olio e vino bianco, arrotolati a spirale su se stessi che vengono fritte in olio di semi di arachidi e inzuppate nel vincotto di vino o nel vincotto di fichi. La tradizione di questa prelibatezza ha origini molto antiche: la più diffusa sostiene che ogni cartellata simboleggi le lenzuola di Gesù Bambino. Altre ipotesi storiche parlano di una specialità arrivata nella nostra terra dall’antico Egitto, luoghi in cui la bontà veniva preparata per i faraoni. La forma del dolce, invece, rimanda alla sua etimologia greca: kartallos che significa cesto.
Con lo stesso impasto delle cartellate, magari con l’aggiunta di qualche uovo, si preparano i porcidduzzi o Sannacchiudere, tipici dolcetti natalizi di Taranto, una sorta di piccoli struffoli rivisitati, fritti nell’olio e affogati nel miele. Hanno un gusto delicato di cannella, sono croccanti esternamente ma morbidi all’interno e vengono serviti, cosparsi dalle anisette, gli zuccherini colorati.
Perché sannacchiudere? Il nome letteralmente significa “si devono chiudere”, tanto che la storia narra che le massaie, dopo averli sfornati, nascondevano questi deliziosi dolcetti nella dispensa. In questo modo, arrivavano intatti sulle tavole il giorno di Natale impedendo a grandi e piccini golosi eventuali incursioni.
Altra bontà realizzata sempre con lo stesso impasto sono i calzoncelli detti anche ficazz fradic: non sono altro che dei piccoli panzerottini ripieni. La tradizione vuole che si farciscano con la marmellata di mele cotogne o con il cotto di fichi e noci. Oggi, sempre più, realizzati con la marmellata fatta in casa, soprattutto quella di ciliegie.
I calzoncelli, chiamati anche “cuscini degli angeli” sono considerati dolci tipici natalizi della provincia di Foggia, ma sono diffusi anche in altre zone della regione, soprattutto nell’entroterra barese e tarantino. Sembra che risalgono al periodo delle invasioni dei Saraceni che dopo aver occupato la Sicilia nel IX e X secolo, si spostarono in tutta l’Italia meridionale. Nell’immaginario popolano simboleggiano il guanciale di Gesù Bambino tanto è vero che a Turi i calzoncelli sono chiamati proprio “chusscine de Gesu’ Ba’mmine” (cuscino di Gesù Bambino): qui il ripieno è composto da ceci cotti e passati, mescolati con cioccolata fondente e liquore.
Non è Natale se non c’è il torrone: in Puglia lo si prepara in casa, con le mandorle raccolte nei nostri campi. Il nome salentino più conosciuto è cupeta o croccante, le cue origini ci spostano in direzioni differenti: una romana in quanto già allora erano avvezzi a preparare una sorta di pasta realizzata con zucchero e mandorle, l’altra vanta antiche origini che risalgono all’827 dopo Cristo e, nello specifico, all’inizio della dominazione saracena in Sicilia con lo sbarco degli Arabi a Mazara del Vallo. Prova ne sarebbe l’etimologia del nome: cubbaita deriva dal termine qubbiat che in arabo significa letteralmente mandorlato. Un approfondimento a parte meritano le pettole tarantine: piccole sfere di pasta cotte in olio bollente, guarnite a piacere a seconda dei gusti e servite spolverate di zucchero, con vin cotto o con miele. La leggenda e la tradizione delle pettole tarantine narra, che nel novembre 1210 una signora di Taranto, abitante nella città vecchia, si distrasse per uscire sul balcone e seguire le prediche di San Francesco d’Assisi, all’epoca il Santo che evangelizzava la città (un’altra versione narra che si fece catturare dalla musica di alcuni zampognari che inseguì per i vicoli della città vecchia). La signora lasciò a lievitare la pasta del pane che preparò come di consueto di buon mattino. Rientrata in casa, la pasta era lievitata troppo, ormai, e il pane non poté più infornarlo. Decise di riempire d’olio una pentola, ci mise dentro i pezzi della pasta, a poco a poco e vide che si formarono delle frittelle che insaporì con cannella e zucchero. I suoi figlioletti apprezzarono tantissimo la nuova ricetta e chiesero alla mamma come si chiamasse. Lei rispose pettel, pensando ad una mini-versione della focaccia che in dialetto tarantino si chiama pitta. Alla sera, per sfamare suo marito che arrivava da una giornata di lavoro da pescatore in mare, aggiunse all’impasto dei pezzi di acciughe. Questa è la ricetta della tradizione delle vere pettole made in Taranto (pettele in antico greco, significa palline, o cuscini, meglio note come i cuscini del bambino Gesù) con cui i tarantini, il 22 novembre, danno avvio al periodo natalizio.
Nel sud-est barese esiste un’altra bella tradizione, quella della faldacchea, un dolce tipico di Turi, il dolce della sposa, alquanto raffinato, fatto di pasta di mandorle. Si racconta che la sua ricetta sia tramandata di madre in figlia e racchiude i segreti dell’arte culinaria casalinga, quando, in prossimità di feste o di matrimoni, era tipico realizzare questo dolce ricoperto da una glassa bianca di zucchero, oggi spesso sostituita con del cioccolato bianco. Col passare del tempo è stata ribattezzata il dolce della sposa, in quanto, tradizionalmente, viene regalato come bomboniera dagli sposi agli invitati alla propria festa nuziale.
La faldacchea è un cuore di pan di spagna bagnato all'alchermes, un'amarena e un pezzo di cioccolata, coperti da un impasto di mandorle, racchiuso in una glassa di cioccolato o zucchero.
La sua storia nasce probabilmente nella cucina della foresteria del soppresso Monastero delle Clarisse di Cassano, dove il 4 ottobre del 1903 giunsero quattro suore del Sacro Cuore di Gesù. Qui, spesso si riunivano gli alunni della scuola elementare unitamente ai più grandi delle scuole medie per recite ed incontri formativi, sempre assistiti dalle Apostole che si dedicavano alle famiglie povere e alla conduzione di un laboratorio per giovanette. Tra di loro trascorse parte della sua giovinezza una turese, che tornata a Turi venne soprannominata monacacèdde ossia piccola monaca che insegnò alle paesane quell’arte pasticciera imparata in convento.
Per il suo aspetto così regale e il suo essere uno scrigno di sapori che si incontrano in un unico boccone, la faldacchea è anche definita il dolce dei signori. Questa idea di gusto, molto barocca, maturò nei conventi femminili dell’Italia meridionale sul finire del ‘700. In Puglia se ne contesero il primato le Teresiane di Bari e le Benedettine di Lecce. Le suore leccesi, però, cambiarono aspetto e ingredienti al dolce. Il ripieno fu mescolato a marmellata e canditi per creare una pancia di un dolce a forma di pesce o di agnello, il famoso pesce di pasta di mandorle, lu tuce te li signori - il dolce dei signori. Un rito che si ripete anche a Pasqua, ma per la resurrezione del Signore cambia ‘forma’ e diventa un riccioluto agnello da tagliare e gustare a fine pasto. E’ un dolce di pasta reale ripieno di marmellata e pere, che si confeziona, appunto, a forma di pesce. Questa tradizione è tenuta viva dalle monache benedettine nel monastero di San Giovanni Evangelista, una istituzione a Lecce e la loro ricetta ha conquistato tutti, tant’è che durante le feste c’è la fila per acquistare i loro secolari dolci di mandorle.
Sempre nel Salento gli altri dolci tipici sono i mostaccioli o mustazzieli che non possono mancare sulle ricche tavole apparecchiate delle festività natalizie. Sono molto speziati e profumati, di forma irregolare e di colore marrone scuro, sono costituiti da un cuore fatto di zucchero, farina, mandorle e vin cotto con un rivestimento in glassa di zucchero e cioccolato. Sono di derivazione araba; la dimostrazione è che non hanno lievitazione. La divulgazione e la vendita specie nelle feste patronali è dovuta all’intuizione del gelataio Luigi Sorgente dopo la seconda guerra mondiale.
Per quanto riguarda il pranzo di Natale, la tradizione delle città marinare vuole che si inizi con una bella carrellata di frutti di mare crudi, allievi e polpo arricciato. Il resto del pranzo è caratterizzato dalla carne, dall’agnello alla carne di maiale. Per primo è immancabile il ragù, servito sulle orecchiette (chiancaredde), preparato sin dalle prime ore del mattino, facendo cuocere il pomodoro e poi gli involtini di carne le brasciole per ore, meglio se sulla brace, con una lenta e continua pignata di creta. Molto gettonata è anche la pasta al forno, un tripudio di maccheroni, ragù di carne macinata, salumi, mozzarella e persino uova sode.
Tra i secondi piatti più caratteristici vi è la tiella di agnello al forno con patate e lambascioni, l’arrosto morto, un grande pezzo di carne cotto in umido con verdure, affettato al termine della cottura e cosparso col sughetto formatosi nella pentola; la grigliata di carne mista con le immancabili bombette martinesi, la salsiccia di maiale, tagliata a punta di coltello, gli gmummirieddi o torcinelli e la famosissima zampina di Sammichele, deliziosa salsiccia di vitello insaporita con pomodori e spezie.
Se il pranzo di Natale è ricco, in tono minore è quello di S. Stefano, che inizia con una minestra. Quelle maggiormente apprezzate sono la minestra verde, fatta di vari tipi di verdura, condita con sugo di spuntatine o cotiche di maiale e il timballetto di cicorie campestri con le polpettine cotte in un brodo di carne che poi viene mangiato come secondo piatto.
Se non si è ancora sazi, oltre alla frutta fresca e a quella secca, il pasto si conclude con il tradizionale panettone, il tutto accompagnato da uno dei numerosi rosolii fatto in casa, magari digestivo come il nocino, il rosolio all’alloro o il più noto limoncello.
Questo è il nostro Natale, con tutti i suoi contorni festosi, della veglia e dei giochi in famiglia, con amici e parenti, più o meno numerosi.
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