“L’ Injera e il dono della fraternità”: cronaca di un viaggio in Etiopia

Pubblicato: 01/02/2021
“L’ Injera e il dono della fraternità”: cronaca di un viaggio in Etiopia

Nella vita, per diverse ragioni, ho viaggiato tanto. Ho sempre pensato che incontrare persone nuove, confrontarsi con diverse culture, può aprire il cuore e la mente. Come sacerdote poi, ho sempre avuto consapevolezza che il ministero presbiterale è a servizio di tutta la Chiesa e del mondo intero. Non può essere circoscritto o sacrificato in un gruppo o una piccola comunità autoreferenziale. Dopo una notte praticamente insonne, arrivai ad Addis Abbeba, una metropoli oramai con più di 4 milioni di abitanti, situata nel cuore dell’Etiopia.

La macchina del buon P. Marcello, missionario da moltissimi anni, era ben solida e ci permetteva di viaggiare tranquilli. Dal finestrino dell’auto osservavo la gente che camminava tranquillamente nelle vie: tante persone che andavano e venivano, un flusso ininterrotto di contadini, impiegati, donne e bambini che con passo rapido e regolare si affrettavano verso i mercati della zona, i luoghi di lavoro e le scuole. Dopo molte ore di cammino giungemmo a visitare la Scuola. All’ingresso della missione ci accolsero, festosi, moltissimi bambini e ragazzi cantando ed esultando di gioia. Un bambino cieco parlò a nome di tutti. Le sue parole chiare e profonde colpirono molto: “vi ringraziamo perché grazie a voi abbiamo una scuola e siamo felici di poter studiare insieme. Qui apprendiamo a vivere e ci sentiamo uguali agli altri con le stesse possibilità e gli stessi sentimenti, siamo felici grazie a voi, perché abbiamo tutti una nuova dignità, esattamente come tutti gli altri”.

La lunga giornata si concluse con una bella iniziativa organizzata da “Il villaggio dei ragazzi sorridenti”, il centro di accoglienza per bambini di strada di P. Marcello. Quella sera, per la prima volta nella mia vita, mangiai una sorta di pane particolare l’Injera. Per gli etiopici l’ospitalità è sacra e declinare l’invito sarebbe stato alquanto indelicato.

I problemi per me iniziarono quando un ragazzo mi portò un piatto fumante, in alluminio, simile a quelli che usavano i militari durante la guerra. Dal piatto si intravedeva una non ben definita massa informe di colore grigiastro, piuttosto spugnosa e oscillante come una gelatina che non sapevo cosa fosse.

Appariva come una sorta di avanzo alimentare e confesso che mi faceva un po’ ripugnanza. Ma, a me piace sperimentare nuovi gusti e conoscere nuove culture anche attraverso i sapori, pertanto, senza scoraggiarmi, per togliermi ogni dubbio, addentai il primo boccone e al contrario dell’impressione iniziale, devo ammettere che rimasi piacevolmente sorpreso perché, nonostante la novità del gusto piuttosto acidulo, quell’alimento strano, mi piaceva molto: un odore ed un sapore unici che mi conquistarono così tanto da fare il bis.

Mi chiedevo cosa fosse e mi risposero si trattava di un piatto tipico della cucina etiopica ed eritrea: l’Injera (in ge’ez: እንጀራ, ənǧära). La pietanza viene preparata con la farina di Teff, un cereale originario degli altopiani etiopici. Il Teff contiene alcuni batteri fermentativi che causano il processo di fermentazione e lievitazione della farina stessa. Questo cereale, comunemente coltivato in Etiopia, è molto usato anche in Eritrea, Somalia, Yemen e presso il popolo Nuer del Sudan. Per i loro abitanti rappresenta quello che il frumento è per gli europei e il riso per asiatici, cioè la base dell’alimentazione.  

Il giovane che l’aveva servito ad una mia richiesta circa la natura di quel cibo, mi disse che quella farina mescolata con l’acqua veniva lavorata fino ad ottenere un impasto cremoso che poi veniva lasciato fermentare almeno 24 ore per 3/4 giorni, a seconda dei gusti; invece per la cottura doveva essere versato e spalmato su larghe piastre di metallo molto calde e chiuse da un coperchio (queste vettovaglie si chiamano i mogogo).

In pochi minuti di cottura si poteva ottenere, più che un pane,  una sorta di crepe morbida, umida, porosa, di colore grigiastro, con numerose bollicine e un sapore leggermente acidulo, dovuto alla fermentazione. Dentro la crepe si può mettere quel che si vuole ma generalmente si associa alla carne (dorowotsegawot) o alle  verdure e salse molto piccanti. Allo spezzatino di carne vien aggiunta molta cipolla e molte spezie che formano il cosidetto Zighini.  

L’injera per essere gustata bene deve necessariamente essere accompagnata da questi cibi e lo Zighini a sua volta non può essere preparato senza il berberè una sorta di salsa aromatizzata. Il berberè è un’antica e tradizionale miscela di spezie tipicamente africana con un profumo intenso e immediatamente riconoscibile.

Quando chiesi informazioni circa gli ingredienti di questa salsa mi dissero che era una miscellanea ben dosata di peperoncino, cumino, cannella, curcuma, zenzero, pepe nero, pepe lungo, coriandolo, chiodi di garofano, ruta, fieno greco, cardamomo ecc. A me pareva una miscela esplosiva, cosi piccante da non riuscire a mandarla giù. Ma indubbiamente il profumo e il sapore complessivo della pietanza erano molto invitanti, tanto che, dopo essermi abituato alla novità, ne mangiai diverse porzioni anche nei giorni successivi. 

L’injera, una volta farcita, viene servita a rotoli così da essere facilmente manducata; la tradizione vuole che gli stessi pezzi di injera servano a raccogliere il cibo, ovviamente con le mani. Quando ragazzi e missionari, alcuni seduti per terra, altri accomodati su piccoli sgabelli ebbero mangiato l’injera, capii che quello era decisamente un rituale importante e che la fraternità, in quella cultura si consolidava proprio con quel pasto comunitario.

Avevo anche compreso che un pasto etiope non poteva dirsi concluso senza il rito del caffè, il cui nome -  caffè -   deriverebbe proprio dalla provincia etiopica di Kaffa. A proposito di caffè bisogna ricordare che da sempre i chicchi di questa favolosa pianta costituiscono uno dei cardini dell’economia del paese. Non si sa con precisione ma quello che è certo che le prime piante del caffè vennero scoperte intorno al IX sec. a Kaffa, regione etiopica. Mi piace qui descrivere la solennità del momento vissuto con quella comunità perché si discosta grandemente dal nostro modo frettoloso di prendere il caffè a fine pasto.

Il rito del caffè prevede un vero e proprio cerimoniale: una donna -  in generale una delle donne della casa o la più anziana -, prima di servire il caffè si mise a spargere dell’erba fresca in un angolo della stanza, -  questa scena l’ho vista persino nelle hall degli alberghi - per portare, all’interno della casa, un po’ della fragranza e della freschezza della natura. Dopodiché si sedette su uno sgabello basso vicino ad un braciere con del carbone ardente dove vi mise dell’’incenso profumato. Versò dei chicchi verdi di caffè in una padella agitandoli per farli tostare uniformemente. Una volta tostati i chicchi, la donna si alzò con eleganza e passò davanti a tutti con la scodella in mano scuotendola in modo che tutti potessimo sentire la fragranza del caffè tostato. Dopo questo gesto scomparve: mi dissero che era andata in luogo a parte a polverizzare i chicchi con pestello e mortaio. La donna riapparve con la tradizionale brocca di argilla tonda e rigonfia alla base, con un lungo collo laterale che termina con un beccuccio (il filtro, sul beccuccio, mi avevano detto che era di crine di cavallo). Riscaldata l'acqua della brocca, vi aggiunse il caffè e lo fece bollire. Versò il caffè, caldissimo, in tazzine senza manico nelle quali aggiungeva dello zucchero e - a discrezione - un ramoscello di ruta. Mi piacque molto quel caffè, ben diverso dal nostro molto più corposo e per niente amaro, forte e scuro, fruttato e con un retrogusto strano che sapeva di affumicato.  

Sul fondo della tazza rimaneva una posa compatta e cremosa. Quando tutti ebbero bevuto, quella donna raccolse le tazze di tutti e aggiunse altra acqua per preparare un secondo giro, usando gli stessi chicchi. Mi avevano spiegato che faceva parte della tradizione fare tre giri e che il primo giro si chiama Awel in tigrino, il secondo Kole’i e il terzo bereke (benedetto), ma io mi limitai soltanto al secondo giro. Il missionario che era con me aggiunse che in Etiopia dicono che il primo giro, più forte, è per i padri, il secondo per le madri e il terzo, il più debole, per i piccoli.  

Mentre prendevo il mio lume e andavo nella mia camera, al termine dell’intensissima ed emozionantissima giornata, pensavo: “tutto quello che ho visto è un miracolo”! E’ tutto merito della Divina Provvidenza e di tanti che generosamente danno il proprio contributo per questo progetto. Certo! Ma se non vi fosse stato un Zebegna – cioè una guida attenta, premurosa e vigile, come P. Marcello non sarebbe accaduto nulla. Ecco perché ognuno di noi è indispensabile agli altri. Ognuno di noi è un dono di Dio per l’altro e la fraternità vissuta attorno alla tavola – il dono del pasto - aveva effettivamente suggellato questa verità cristiana.

Del resto il Signore è proprio durante una Cena che ci ha donato tutto sè stesso.

Don Alfonso GIORGIO



Ultimi Video


Vedi tutti i video »

Clicca sul Banner in basso e guarda il video

Inquadra il codice qr e sostienici!

Oltre le barriere - 2k24 -

è un progetto de

L'Albero Verde della Vita

_____________________________

 

_______________________

DOMUS SAPIENTIAE - Collana Testi

(Liber I)

(Liber II)

(Liber III)

______________________