La forza della debolezza nelle mani di Dio

Pubblicato: 26/12/2022
La forza della debolezza nelle mani di Dio

La nascita di Gesù a Betlemme, nell’umiltà di una grotta è un chiaro messaggio per tutta l’umanità: Dio l’Altissimo e Onnipotente non vuole manifestarsi nella grandezza o nello sfarzo e proprio per questo,  povertà e umiltà  diventano le caratteristiche principali di questa Rivelazione. Quel Bambino, infatti, non sembra in nulla il Figlio di Dio, non si vede in lui nessun segno di forza, ricchezza o potere. Sceglie di nascere in un paese remoto della Giudea e in un luogo molto singolare: una mangiatoia, che è il posto più rude che possa esserci.

“Il Verbo di Dio si è fatto carne” (Gv 1,1) per condividere la nostra umanità, ma in questa divina intenzione è l’ultimo posto ad essere occupato, affinché, facendosi solidale con gli ultimi nessuno possa sentirsi escluso dal Suo amore. La Kenosis (l’abbassamento) è tale che non ci possono essere situazioni più disagiate di Betlemme. L’intenzione del Signore è chiara: Egli predilige ciò che è piccolo, povero, minimo, per raggiungerci e amarci dall’interno della nostra esperienza. Nascendo in forma umana assume la fragilità di ogni neonato, che è in tutto dipendente dagli altri. Lo vediamo in braccio alla madre perché accetta di mettersi letteralmente nelle mani di una donna, Maria, e di un uomo, Giuseppe. Si concede con totale fiducia, esponendosi completamente ai limiti propri della condizione umana.

Questa decisone di Dio cosa dice alla nostra vita e, in modo particolare a chi fa, ogni giorno, l’esperienza del proprio limite in una situazione di svantaggio rispetto ad altri? Quando incombe la tentazione di sentirsi troppo piccoli, inutili o inefficienti, magari svalutando ciò che siamo e abbiamo - perché ci sembra troppo poco o imperfetto di fronte ad una massa di persone cosiddette “normali” - dobbiamo sforzarci di contemplare, nella fede, il mistero della Sacra Famiglia.

Il coraggio di Maria e di Giuseppe nell’affrontare le difficoltà sin dai primi momenti; l’atteggiamento accudente verso Gesù Bambino ma, al tempo stesso, la consapevolezza che Egli era il figlio di Dio e, per questo, doveva crescere e autonomamente compiere il progetto di Salvezza del Padre. Chissà Maria quanti interrogativi si sarà posto, quanto stupore: “Che ne sarà di questo bambino? Se è il Figlio dell’Altissimo come può scegliere di venire proprio qui tra le mie braccia? Quanta tenerezza, quanta fragilità e debolezza in questo Divino Bambino! Che ne sarà mai? Cosa ci accadrà? Come difenderlo?” Sono gli interrogativi di ogni mamma. Sono pure gli interrogativi che ogni madre si pone di fronte alla disabilità del proprio figlio. Il padre e la madre sentono di doversene fare carico in pieno. La fragilità, in questi casi, si può dire che è doppia perché si tratta di un neonato e quindi di una ceratura fragile, ma anche di una persona con disabilità e per questo ancora più fragile e svantaggiata. Per analogia possiamo dire che Dio ha voluto vivere una situazione simile: si è fatto bambino, ma ha anche scelto di essere solidale con l’umanità più fragile e più povera, collocandosi  ai margini della società.

La Sacra famiglia ci insegna la Fede, l’abbandono, la speranza. Se Dio si è incarnato in questa umanità vuol dire che tutti, senza distinzione, siamo amati da Lui, anzi proprio coloro che risultano più fragili ed emarginati sono privilegiati nel Suo cuore.

Se il Bambino di Betlemme, nonostante le apparenze è il Messia venuto a salvarci, allora non dobbiamo fermarci ai momenti iniziali, perché tutto ciò che inizia è sempre fragile. Non sappiamo mai come si svilupperà, quali frutti potrà dare, eppure noi siamo chiamati a dare fiducia e a lasciarci coinvolgere mettendo a disposizione tutto ciò che siamo e possiamo affinché dal seme iniziale cresca un grande albero. Se il poco diviene oggetto di cura amorevole ed è posto umilmente nelle mani di Dio può diventare qualcosa di straordinario. Una situazione iniziale di debolezza può trasformarsi in un punto di forza. E’ ciò che San Paolo affermava: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10). L’Apostolo non si vergogna di testimoniare ai Corinzi il suo personale stato d’animo e, molto più probabilmente, una sua reale situazione di debolezza fisica o psicologica, quale una infermità o uno stato d’animo provato. Si tratta di una situazione paradossale ma, in fondo questo paradosso rinviene da Betlemme e riceve una solenne conferma al calvario. Infatti è proprio lì,  quando Gesù viene crocifisso ed abbandonato, debole ed indifeso che  manifesterà la sua grandezza nel superamento e nella Gloria della risurrezione. L’Apostolo ritiene quindi di essere “forte” nella sua debolezza, in quanto pienamente coinvolto dalla vita di Gesù e dal suo messaggio di amore, partecipe della dinamica vittoriosa del Crocifisso risorto. La debolezza che diviene, paradossalmente, occasione di fortezza d’animo, non è del tutto estranea all’esperienza umana. Sono tante le testimonianze di uomini e donne per le quali situazioni disperate e di deriva umana grave sono diventate occasione di grande cambiamento, ricuperando grandi valori che avevano smarrito e ritrovando la serenità perduta.

Umanamente è difficile accettare il limite, accettare le proprie fragilità, i propri disagi. Tutti abbiamo difficoltà nell’accettazione delle nostre fragilità. E’ una reazione legittima, ma dobbiamo credere che Dio “si incarna” e ci raggiunge “qui ed ora”, non in un’altra condizione o in un contesto “migliore”. Non “nonostante” la debolezza ma proprio attraverso le nostre fragilità e tutto ciò che noi siamo. 

don Alfonso GIORGIO



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