La ricetta del dono

Pubblicato: 15/01/2021
La ricetta del dono

Quando nella Chiesa si parla di denaro o di ricchezza, in generale, non mancano fraintendimenti, accuse, luoghi comuni. Bisogna ammetterlo, è difficile parlare di denaro, fra noi cristiani: troppe incomprensioni, troppi abusi, troppi sospetti e mancanza di prudenza.

Il rischio, come sempre, è quello di scivolare nel moralismo o nel facile populismo. Infatti, a parole, siamo tutti inequivocabilmente distaccati. Ma i fatti molto spesso ci smentiscono.

La ricchezza non è una questione di quantità o di volume del portafoglio ma di atteggiamento del cuore.

Gesù ha amato particolarmente i poveri e i bisognosi però, bisogna pure dire che non è mai stato un classista; fra i suoi discepoli, infatti, troviamo insieme poveri e ricchi, come lo stesso Giuseppe di Arimatea.

Lo sa bene il “giovane ricco” del Vangelo: il denaro è un pessimo padrone, ci inganna, perché promette ciò che non è in grado di mantenere. Dovremmo chiedere al Signore di essere liberi davanti al denaro, di condividerlo, se abbonda, di non disperarci se improvvisamente dovessimo piombare nella miseria, di poterlo guadagnare con onestà, come frutto del sudore della nostra fronte.

La Chiesa dovrebbe essere sempre attenta nel gestire il denaro, affinché sia usato innanzitutto per i poveri, e solo dopo per l’evangelizzazione e l’organizzazione ecclesiale, in ogni caso, sempre con uno stile di povertà evangelica.

Quando si parla di “povertà” evangelica, non c’è niente di ideologico, né tantomeno di “comunista”. In più occasioni il Papa ha affermato che “la povertà è proprio al centro del Vangelo” e che se il Vangelo venisse privato di tale concetto “non si capirebbe niente del messaggio di Gesù[1].  

È infatti lo stesso San Paolo a ricordare ai Corinzi, che la “vera ricchezza” risiede “nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità[2].

La “teologia della povertà” ha il suo fondamento in Gesù che “da ricco che era – dalla ricchezza di Dio – si è fatto povero”, abbassandosi per noi.

Nella stessa direzione si pone la prima delle Beatitudini – “beati i poveri in spirito” – che significa fondamentalmente “lasciarsi arricchire dalla povertà di Cristo e non volere essere ricco con altre ricchezze che non siano quelle di Cristo”. Essendo la povertà “al centro del Vangelo”, essa non può essere “un’ideologia”: vi troviamo piuttosto “il mistero di Cristo che si è abbassato, si è umiliato, si è impoverito per arricchirci[3] .

La ricchezza che si ha nel cuore deve arrivare “alle tasche”, altrimenti “non è una fede genuina” (Papa Francesco). E’ facile chiedere che siano gli altri a contribuire per le necessità dei poveri, è facile animare progetti di aiuto ai poveri, più poveri del mondo; ben più difficile è rimetterci del proprio, rimetterci di persona, mettendo mano alle proprie tasche o spendendo del tempo o delle risorse proprie, come, del resto, il vangelo ci esorta a fare.

Dà a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro[4]. Il Papa in occasione della giornata mondiale del povero ci ha voluto ricordare che è ancora tantissima la gente che “passa la vita solo ad accumulare, pensando a stare bene più che a fare del bene.

Ma com’è vuota una vita che insegue i bisogni, senza guardare a chi ha bisogno. Se abbiamo dei doni, è per essere doni”[5]. È una questione di stile di vita e la spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita. Del resto, come è scritto in Laudato si’: “la sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza è liberante”[6] (Papa Francesco, Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Città del Vaticano, 24 maggio 2015, n.94).

Se i singoli credenti per trovare a vera felicità devono applicare la “ricetta” del dono a piene mani e farsi essi stessi dono gli uni per gli altri, la Chiesa, ancor più, deve perseguire questo cammino di apertura e gratuità verso tutti. Oggi, come non mai, la Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa ed andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, della sofferenza, dell’ingiustizia, dell’ignoranza, dell’indifferenza religiosa e del pensiero, quelle di ogni forma di miseria.

Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala (si pensi alla donna curva su stessa del Vangelo). I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sè e non lo lascia uscire. (Cfr Evangelii Gaudium nn. 20,24,93,95).

Parlare di periferie non è solo un concetto anzitutto geografico, ma decisamente antropologico, è un richiamo a definire che cosa sta al centro dei pensieri e dello sguardo di Gesù in riferimento all’umanità. Bisogna lasciarsi guidare anzitutto dalla eloquenza dei gesti di Gesù verso i poveri, gli ammalati e le persone con disabilità in genere, e poi dal gesto supremo della croce dove Gesù si fa carico, cioè “passa attraverso” la sofferenza e la morte per darne un altro significato.

Il Suo amore per i poveri, gli emarginati e gli esclusi dalla società è palese. Del resto tutto l’evangelo è inequivocabilmente indirizzato ai poveri: “Sono venuto a portare la Buona novella ai poveri” (Cfr Mt. 11, 5). Un annuncio buono e salutare che ti cambia la vita.

Don Alfonso GIORGIO

 

 

[1] Cfr Omelia S. Marta del 16 giugno 2015

[2] Cfr. 2Corinzi. 8,1-9

[3] Cfr Omelia a S. Marta del 16 giugno 2015

[4] Lc. 6, 29

[5] Giornata mondiale del povero, 2020.

[6] Papa Francesco, Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Città del Vaticano, 24 maggio 2015, n.94)



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