La trasparenza spirituale, nel rapporto con Dio e con gli Altri

Pubblicato: 26/02/2022

Luca 6, 39-45

La trasparenza spirituale, nel rapporto con Dio e con gli Altri

“Può, forse, un cieco guidare un altro cieco?” Questo è l’interrogativo che Gesù ci pone  in questa ottava domenica del Tempo Ordinario, per portarci su un altro “terreno” che è quello della coerenza, della  onestà e della lealtà.

Diventare ciechi, è un rischio che corriamo tutti, ma diventare guide cieche, mettendoci su un piano superiore rispetto agli altri è un rischio spirituale ancora più ricorrente. Si, perché molto spesso, ci attardiamo a guardare gli errori degli altri e a giudicare quello che fanno di sbagliato evitando di guardare a quello che facciamo noi; guardiamo la “pagliuzza” che è nell’occhio del fratello e non la “trave” che è nel nostro occhio.

Tra l’altro va detto che, in riferimento a quella  espressione a quell’interrogativo di Gesù, effettivamente è possibile che un cieco guidi un altro cieco, e ancor più un non vedente in senso spirituale. Con questo non intendo contraddire il vangelo. E’ chiaro che, se intendiamo la cecità come una oggettiva difficoltà fisiologica, e quindi come difficoltà nel percorrere le strade del mondo e percepire lo spazio in cui ci si muove, è inutile confermare che l’impedimento rimane, perché le persone con disabilità visiva, in genere, hanno bisogno di qualcuno che li accompagni, hanno bisogno di tecnologie e di strumenti precisi. Posso testimoniarlo in prima persona in quanto è da un po’ di anni che, volentieri, mi ritrovo in cammino con diversi fratelli e sorelle non vedenti; mi accorgo che questo è necessario però devo pure testimoniare che, tante volte, sono proprio i ciechi a guidare altre persone e ad attestarsi veramente come ottime guide spirituali sia per quel che concerne il cammino della fede, sia per l’aspetto umano, per l’accompagnamento e la crescita in umanità. Sono degli ottimi consiglieri, delle ottime guide.

E’ chiaro quindi che Gesù non avesse intenzione di  parlare della cecità in senso fisiologico ma piuttosto della mancanza di fede, mancanza di spiritualità e soprattutto anche di una mancanza personale, un vuoto personale: “io ho una trave nel mio occhio”, cioè ho diversi errori, compio diversi errori e i miei errori sono anche più grossi di quelli che sto guardando negli occhi degli altri. Questa  situazione mi mette sicuramente in una condizione di svantaggio perché così non sono in grado di giudicare. Chi sono io per giudicare? Non devo giudicare l’altro!

L’evangelista Luca ricorda le parole di Gesù per denunciare le contraddizioni che spesso si nascondono nella comunità cristiana. Son in troppi ad elevarsi a maestri e  giudici, e, quel che è peggio, lo fanno nella più totale ed estrema incoerenza. Per denunciare gli errori e le mancanze di altri bisognerebbe esserne personalmente immuni, altrimenti, in partenza, ci si presenta non credibili. Il vangelo vuole stroncare qualsiasi pretesa di porsi come giudici dei fratelli e delle sorelle che ci sono accanto.

Non siamo mai nelle condizioni di giudicare gli altri e, meno che meno con criteri personali. Sarebbe questo un atteggiamento divisorio che compromette l’armonia, la coesione, la pace della comunità, perché metterebbe alcuni su un livello superiore rispetto agli altri.

In genere coloro che si attardano a considerare gli errori degli altri, in fondo in fondo è perché quegli errori, proprio quelli su cui “battono” continuamente sono proprio gli spazi irrisolti, le situazioni personali irrisolte, le zone irrisolte della propria vita. La psicologia lo conferma e ci dice che se io continuo a guardare i difetti degli altri, quel tipo specifico di difetti è proprio perché, pur non ammettendolo, inconsciamente, rivedo i miei difetti e sono proprio i limiti che mi caratterizzano.

Non sarebbe male, quindi fare un esame di coscienza a riguardo e guardarsi dentro, con più onestà, perché, in effetti, prima di guardare gli altri dobbiamo guardare dentro di noi. Per questo viene usata la parola “ipocrita”, che Gesù ha rivolto normalmente agli scribi e ai farisei.

Il termine “ipocrita” fa riferimento alla maschera usata negli antichi teatri greco-romani e designa colui che recita  una parte che non corrisponde alla sua vera condizione nella vita. Veste e parla da re - per esempio- ma nella realtà potrebbe essere solo un poveraccio o recita la parte di un santo, ma nella realtà è un peccatore incallito, un poco di buono.

La verità è che il cristiano che giudica può essere peggiore di coloro che giudica. È significativa quindi l’immagine propostaci da Gesù che mette in correlazione la pagliuzza con la trave. Non dobbiamo essere ipocriti perché gli ipocriti non trovano spazio nel cuore di Dio.

Mi piace concludere questa riflessione con una preghiera composta da don Tonino Bello:

Chiamati ad annunciare!   

Chiamato ad ANNUNCIARE la tua parola,
aiutami, Signore, a vivere di Te,
e a essere strumento della tua pace.
Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita,
perché le mie parole, quando veicolano la tua,
non suonino false sulle mie labbra.
Concedimi la gioia di lavorare in comunione,
e inondami di tristezza ogni volta che,
isolandomi dagli altri,
pretendo di fare la mia corsa da solo.
Salvami dalla presunzione di sapere tutto.
Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.
Dalla durezza di chi non tollera ritardi.
Dal rigore di chi non perdona debolezze.
Dall’ipocrisia di chi salva i princìpi e uccide le persone.
Trasportami, dal Tabor della contemplazione,
alla pianura dell’impegno quotidiano.
E se l’azione inaridirà la mia vita,
riconducimi sulla montagna del silenzio.

don Alfonso GIORGIO



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