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Un’opera di misericordia: “Ero forestiero e mi avete ospitato”
Il Papa ci sta insegnando che non dobbiamo avere paura di dialogare, accogliere e amare coloro che incrociamo sul nostro cammino. Anche se l’altro ha un’idea diversa dalla nostra, bisogna tendere sempre la mano, sperando che ci sarà il momento in cui l’altro l’accetterà, per andare avanti. Non possiamo agire da soli. E’ arrivato il momento in cui bisogna mettere insieme le idee e le energie per “lavorare in rete”, come si dice, spesso, oggi.
I poveri bussano alle porte delle nostre Chiese, delle nostre associazioni e comuni e noi non possiamo rimanere indifferenti, però ci accorgiamo di non avere sempre le forze. Non tutto dipende da noi! C’è un sistema economico di fondo che privilegia pochi a discapito di molti. Papa Francesco lo ha dichiarato, il 21 febbraio scorso, al VI Forum Internazionale sulle migrazioni e la pace: “Non può un gruppetto di individui controllare le risorse di mezzo mondo. Non possono persone e popoli interi aver diritto a raccogliere solo le briciole”. Questo divario è alla base di tanti squilibri. “Manca la giustizia redistributiva”. E’ vero che da solo non posso cambiare la realtà in modo generale ed immediato però “nessuno può sentirsi tranquillo e dispensato dagli imperativi morali che derivano dalla corresponsabilità nella gestione del pianeta, una corresponsabilità più volte ribadita dalla comunità politica internazionale, come pure dal Magistero" (Papa Francesco 21 febbraio 2017). Il sistema economico e sociale nel suo complesso andrebbe corretto, “un dovere di civiltà”. Non si tratta solo di cancellare forme di colonialismo, o di egemonia, ma di portare avanti “una riparazione. A tutto ciò bisogna riparare”, afferma Papa Francesco.
E’ un lavoro d’insieme che coinvolgendo ogni associazione, ogni movimento, nell’attenzione ai poveri, metterà tutti nella condizione di servire meglio. Perché, secondo il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente di Caritas italiana, “come Chiesa o come Caritas non sono migliore degli altri. Ho però qualcosa dentro che rende diverso il mio servizio: non dò soltanto il pane ma sono preoccupato della dignità dell’essere umano”, (Card Montenegro al Consulta ecclesiale degli organismi socio-assistenziali, il 5 ottobre 2016) .
La nostra missione di cristiani è all’uomo, tutto l’uomo, non al disabile, al cieco o al malato, al povero o all’emarginato. A riguardo mi ha fatto riflettere un episodio che voglio raccontarvi. Una donna straniera, nei pressi di Borgo Pio, in una mattinata fredda di inverno mi fermò e mi disse: “Ti prego aiutami”! Allora io, che avevo fretta di andare in ufficio, le chiesi: “di cosa hai bisogno”? Pensavo, infatti, di darle dei soldi o comprarle da mangiare, come spesso accade, invece lei mi disse: “ho bisogno di essere ascoltata da lei e che lei preghi insieme con me”! Anche noi sacerdoti abbiamo bisogno di capire che quanti incontriamo sulla nostra strada, sulle nostre spiagge, o ci interpellano per varie ragioni, sono anzitutto persone, non disabili con un problema, migranti, poveri ed affamati soltanto. Davanti a noi, in mezzo a noi, c’è tutto l’uomo con le sue peculiarità, la sua storia personale e le sue potenzialità, oltre che la sua precarietà.
Se parliamo di migranti non possiamo sottovalutare il fatto che per la maggior parte di loro partire e allontanarsi dalla propria terra è una necessità, un tentativo per salvarsi, un’occasione per sperare ancora in mezzo a tanta disperazione, guerre e persecuzioni.
I racconti di molti di coloro che sono sopravvissuti lo confermano: “Meglio morire in mare che stare in Libia. In mare si muore una volta sola, se stai in Libia è come se morissi tutti i giorni”. Bakary, un ragazzo con poco più di 17 anni, è un minore ospitato in una struttura di accoglienza in Calabria. Viene dalla Guinea Bissau e ha raggiunto la Libia attraverso il Gambia, quattro settimane di viaggio nel deserto. “I letti dove dormivamo in Libia erano pieni di insetti, avevamo pagato per il viaggio, ma nell’attesa dovevamo lavorare per i padroni del posto. Gratis, come schiavi. Chi si rifiutava veniva picchiato. Ho visto gente morire sepolta a pochi metri da dove dormivamo”.
“La fede aiuta, ma il viaggio è duro”. Così scrive un diacono ortodosso, etiope, su un piccolo diario di viaggio, composto da pochi foglietti, ritrovato nella stiva di una barca accuratamente avvolto nella plastica e forse lì dimenticato. T.W. è arrivato a Khartoum, e da lì è ripartito. «La macchina era un fuoristrada (…) Sopra il portabagagli c’erano 16 persone incluso me (…) una sabbia calda e fine ci sbatteva in faccia». Mentre scrive queste cose è in Libia, nascosto da giorni nel retro di un negozio, in attesa di imbarcarsi per l’Italia. Attraverso i suoi scritti comprendiamo la sofferenza e il dolore del distacco dai propri cari e dalla propria terra come pure lo sconforto e la delusione: «Mi addoloravo molto, mi veniva da piangere, mi vergognavo della situazione in cui mi trovavo». Siamo di fronte ad un uomo prostrato, per terra, sulle strade del nostro mondo, una dignità infranta e degradata.
Finalmente riescono a partire e il diacono trova il tempo per scrivere: «Il viaggio è iniziato a mezzanotte. Verso le otto di mattina il motore si è spento (…) Il mare era molto mosso. L’acqua ha cominciato a entrare nella barca, abbiamo dovuto ributtarla fuori con qualsiasi oggetto». Due giorni dopo «è arrivata una nave libica e ci ha riportati indietro». L’ultimo foglietto numerato racconta del carcere di Kufra: «Avevo una tristezza tremenda». Dopo di che non ci sono più altre annotazioni. E’ evidente che lo sconforto ha pervaso tutta la persona. A dargli forza, gli arriva una lettera della sorella S., datata 25 aprile 2007, probabilmente recapitata a mano da un connazionale. Parole di speranza e di incoraggiamento, che il diacono avvolge nella plastica assieme al diario:
«Fratello mio che ti trovi oltre il mare (…) Devi avere molta pazienza (…) Abbiamo sentito delle violenze, delle sofferenze incredibili, dei morti, e anche dei tanti ragazzi che sono tornati qui dalla disperazione. Sono sicura che tu arriverai a destinazione con l’aiuto di Dio. Quello che hai perso ora, lo ritroverai, la fame che provi, la paura che hai, alla fine svaniranno. Dio ti ripagherà con una vita piena di gioia».
Sono persone quelle che attraversano i mari nel pericolo, sono nostri fratelli e sorelle che ripongono ogni speranza in quel viaggio. Tra loro ci sono moltissimi credenti animati da tanta Fede e sostenute dall’affetto e dall’ approvazione dei loro cari, come nel caso del diacono etiope. Come rimanere indifferenti dinanzi a queste storie di sofferenza e di speranza? Noi siamo la Chiesa che vive il vangelo della carità, che testimonia la bontà e la misericordia di Dio e vuole salvo tutto l’uomo in tutta la sua dignità di persona. Non possiamo trascurare questo!
E’ bella questa Chiesa che da sempre si occupa dell’uomo e delle sue necessità. E bella questa “chiesa povera per i poveri” che ci indica Papa Francesco. Una Chiesa che si sporca le mani come il Padre Misericordioso che non esita a gettarsi al collo del figlio che aveva perso. Non aspetta che si rimetta in ordine o si ripulisca ma gli corre incontro. Si perché, alle volte, il povero “puzza” e te ne accorgi, certo che te ne accorgi! E’ esigente, a volte, ma è un figlio di Dio, anzi, ancor più di ogni altro, è la presenza stessa di Cristo nella mia vita (Cfr Matteo 25) e noi potremmo mai allontanare Gesù? Proprio Lui? La Sua carne, dai nostri occhi?
Papa Francesco ci richiama continuamente al Vangelo, perché dovrebbe essere il nostro continuo riferimento, non dobbiamo mai dimenticarlo.
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