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Le rive dell’Eufrate, tappa finale di un lungo viaggio
Una semplice foto evoca tanti ricordi e tanta nostalgia. Un semplice scatto fa risalire tanta emozione e il ricordo di questo fiume, in un istante, si collega ad un mondo ormai perso nei meandri dei ricordi.
Fırat o Eufrate, che allora, per me, non era nient’altro che il fiume dove mio zio ci portava a fare i picnic.
Ma la storia cominciava molto prima del fiume Eufrate, come ogni anno, almeno 2 settimane prima.
Una strada lunga quasi 4000 km, che attraversava tutta l’Europa, per arrivare in questo paesino ai bordi dell’Eufrate, in mezzo al nulla, ma che significava tutto in realtà. L’unico luogo che rappresentava le mie origini certe. Non ero nata in quel posto, vicino all’Eufrate, ma di sicuro la mia storia iniziava lì.
Eppure la mia storia somiglierà tanto a quella di migliaia di altri giovani figli d’immigrati, nati lontano, ma in un certo modo, profondamente legati alla terra d’origine dei propri avi.
Nel mio caso, Erzincan, che ancora oggi emoziona mio padre, e che in passato emozionava tanto mia madre appena veniva nominato, questo paesino per me sconosciuto e lontano dalla mia bella Normandia.
Ogni anno si preparava la stessa “avventura”, per affrontare questo lungo e faticoso viaggio, per il ritorno, come dicevano i miei genitori, “a casa”.
La preparazione del viaggio pesava soprattutto su mia madre. Era un viaggio che durava diversi giorni e diverse notti, trascorse in macchina. Ebbene si, l’avventura turca si affrontava in macchina.
Negli anni ‘80 ed inizio anni ‘90, migliaia di famiglie turche in tutta Europa, partivano per la Turchia all’inizio dell’estate, dopo la chiusura delle scuole. Si trattava di un vero e proprio esodo. Le frontiere dell’est Europa si riempivano di migliaia di macchine cariche e piene di famiglie provenienti da ogni parte. Tanti dalla Germania, dalla Francia, Austria, Belgio, Svizzera.
L’aereo non era ancora tra i mezzi di trasporto contemplato. Oltre al motivo economico e al senso di libertà che dava la macchina, essa rappresentava anche uno status sociale. Pochi in Turchia avevano la macchina in quegli anni, si doveva pur dimostrare di aver ottenuto un certo successo avendo lasciato il proprio paese.
Inoltre, la macchina permetteva a tutte le mamme turche di potere portare con sé tantissime cose, sia nel viaggio di andata che in quello di ritorno.
La preparazione di questo viaggio richiedeva anche una pianificazione del percorso da intraprendere, sapere quindi quali paesi attraversare, considerando che l’unica lingua parlata, da genitori emigrati giovani in Francia, era solo un francese approssimativo. Questo finché i figli non sarebbero cresciuti, prendendo in mano l’aspetto logistico.
Un aspetto pieno di ansia questo, poiché era il momento in cui si discuteva e decideva, con chi fare strada per la Turchia. Si creava sempre una carovana di macchine e famiglie, per essere più sicuri ed avere maggiore solidarietà in caso di bisogno.
La scelta del percorso da intraprendere diventava ardua, quando gli uomini della comunità raccontavano di certi pericoli che l’amico dell’amico aveva incontrato, passando da tale o tale strada. Ricordo che si attraversava la Germania, l’Austria, ma anche la ex Jugoslavia e la Bulgaria, che da poco uscivano dal periodo tristemente doloroso del comunismo, con popolazioni economicamente ed emotivamente in ginocchio.
Ricordo ancora che papà, insieme ad altri amici, scelse una strada piuttosto che un’altra, perché per sentito dire, un conoscente si era avventurato da solo e non se ne seppe più nulla. Se nonché dopo tanto tempo, arrivò a destinazione confermando di aver incontrato mille difficoltà.
Le donne iniziavano un calcolo complicato delle tappe e dei giorni da passare in viaggio, per calcolare tutti i pasti necessari. Bisognava prevedere i cambi necessari per ogni passeggero, incluso l’occorrente igienico.
La peripezia cominciava già nei primi giorni di giugno, con l’acquisto di regali per i parenti (che erano in realtà beni di prima necessità non molto accessibili in Turchia, piuttosto che regali) e la prima borsa iniziava a riempirsi di shampoo, cioccolato, caffè. Valigie a non finire. Era come se la nostra casa in Francia si trasferisse in Turchia.
Vivevamo in Francia per 10 mesi come sospesi, in attesa della “vera” vita in Turchia per tutto il periodo estivo.La preparazione dei pasti era degna di una missione impossibile. Non capivo come una macchina potesse contenere cosi tante cose, oltre ai cinque passeggeri. Vedevo mia madre come una donna fuori dal comune, capace di organizzare 3 pasti al giorno per 4 notti per un’intera famiglia, con la capacità di ricordare dove era posto ogni singolo oggetto. Ciò che scadeva prima, doveva essere consumato i primi giorni, quindi era posizionato più a portata di mano.
Una volta pronta la macchina, mio padre e i suoi amici decidevano giorno e orario di partenza. Spesso si partiva in piena notte. Cosa che non ho mai veramente capito. L’euforia di mia madre era palpabile. Regnava un allegria a casa che tuttora ricordo con tenerezza. Era davvero felice di ritornare in Turchia.
Nei primi anni ’80 la nostra destinazione eraErzincan, nel profondo est del paese, laddove passa l’antico fiume Eufrate. In effetti, i genitori di mamma vivevano ad Istanbul mentre quelli di mio padre ad Erzincan. Era impensabile restare qualche giorno ad Istanbul e riprendere il viaggio. Bisognava continuare gli ultimi 1000 km che separavano le due città per arrivare dai nonni paterni.
Essendo una società patriarcale, pesava di più la famiglia del marito, quindi ogni anno, ci fermavamo solo il tempo di una notte ad Istanbul dai nonni materni (spesso mia mamma non vedeva la propria mamma da più di due anni), perché papa potesse dormire in un vero letto, dopo quelle passate sul sedile posteriore della macchina, mentre noi eravamo fuori a socializzare e sorseggiare un tè caldo, con altri turchi di tutta Europa.
Appena svegliati, nonna ci preparava la prima colazione e con gli occhi pieni di lacrime vedeva ripartire sua figlia verso Erzincan, dove avremmo passato la metà delle vacanze per poi ritornare a Istanbul.
L’emozione si fa grande! Abbiamo attraversato i 1000 km della ex Jugoslavia tutti d’un fiato senza mai fermarsi. Ora entriamo nell’allora ostile Bulgaria, dove tutto sommato il percorso durava molto meno.
Ma ormai è quasi fatta, vediamo già quasi la frontiera turca. Gli ultimi chilometri della Bulgaria già profumano di Turchia.
L’allegria in macchina diventa quasi soffocante, abbiamo passato troppo tempo tutti insieme in uno spazio cosi ristretto. Papà lancia uno sguardo a mamma, che con la mano tremante tira fuori i passaporti. I vecchi rapporti storici tra i due paesi hanno lasciato amarezza nelle anime di tutti, quindi capitava spesso che le autorità locali trovassero qualche scusa per far perdere tempo inutilmente ai viaggiatori turchi.
Ho ancora il ricordo d’infanzia di un giorno intero di attesa alla frontiera bulgara, semplicemente perché chiusa, ma senza spiegazione e con centinaia di famiglie in attesa della riapertura. Io lo vivevo come un momento di scambio culturale, ma i miei genitori ridevano meno.
Attraversata la frontiera bulgara o greca (a secondo dell’epoca) e vedere cartelloni pubblicitari turchi e macchine con targhe turche, ci ricordava il perché di così tanta fatica.
Prima tappa, in un ristorante di bell’aspetto, facevamo una meritata pausa per mangiare seduti tranquillamente a tavola. Pause del genere non se ne facevano altrove. Solo in Turchia. Perché lì ci sentivamo a casa, certo fatalmente le cose sarebbero cambiate in modo ineluttabile.
Dopo la frontiera, Istanbul, in proporzione alle migliaia di chilometri trascorsi, risultava tutto sommato vicina. La famiglia era già stata avvisata del passaggio “veloce” di mia madre. Quindi, tutti presenti per accoglierla, abbracciarla e poi farla riposare.
L’indomani, tutti presenti per augurare una buona continuazione di viaggio. Veniva lanciata acqua sul retro della macchina, quell’acqua si confondeva con le lacrime di mia nonna e delle mie zie, che erano tristi e rassegnate.
Questo scenario era diventata un’abitudine, finché purtroppo non morirono i nonni paterni. La sofferenza di mia madre sarebbe finita, avrebbe potuto svolgere il suo ruolo di figlia, che sentiva di non compiere pienamente stando cosi lontano.
Quando si lasciava Istanbul per Erzincan, eravamo tristi. La macchina era nuovamente carica di cibo, ma questa volta c’erano simit, lahmacun e pide, imballati per la strada. Sinceramente, oggi mi rendo conto che in realtà, era lo stato d’animo di mia madre che mi influenzava. La sua tristezza e il suo dolore condizionava la famiglia.
Con il passare dei chilometri ritrovava il sorriso e noi con lei, avvicinare Erzincan, portava anche lei a casa. Era nata lì. Lì vedeva pascolare gli animali, lì lavava i panni nel fiume Eufrate, lì vide per la prima volta l’unico amore della sua vita, che l’accompagnò fino al suo ultimo respiro di vita.
Il fiume, l’Eufrate. I miei ricordi d’infanzia sono come dei flash, ma rimane ancora vivo il ricordo di quella giornata passata ai bordi dell’Eufrate, dove la maggior parte della mia numerosa famiglia, che ancora viveva lì, si raggruppò per passare una giornata indimenticabile.
Mio zio fece fare il bagno ai più piccoli nello storico fiume, la sua acqua cristallina e fresca racchiudeva la mia quintessenza. Adesso posso dire a voce alta, senza esitazione e senza imbarazzo, sono di lì.
Ümeyhan AZMAN
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